Fra gli effetti più drammatici che l’emergenza Covid19 sta determinando, oltre a quelli sanitari e a seguire quelli economici, ci sono quelli sociali. Non solo per quanto stiamo tutti vivendo in queste settimane ma anche per i segni che rimarranno in futuro dentro di noi. Questo forzato isolamento insieme alle paure o effettivi rischi di futuri contagi potrebbero radicare l’idea che l’unica dimensione sicura siano le mura domestiche e non più gli spazi pubblici delle nostre città. Un processo questo che non solo rischia di riportare indietro o addirittura compromettere i percorsi di “riconquista” delle città e della dimensione di comunità cittadina che in molte realtà, soprattutto negli ultimi anni, sono stati avviati e di cui, per certi versi, si sono visti gli effetti anche attraverso i gesti di solidarietà e coesione di questi giorni.
E quindi, non solo attraverso un giusto lessico, cominciamo a definire quello che si sta vivendo un distanziamento fisico per fare in modo che non diventi poi un prolungato e drammatico distanziamento sociale che rischia di isolare ulteriormente alcuni ma allontanare in verità un po’ tutti. Si pensi ad esempio ai drammatici proclami relativamente alla necessità di non far uscire le persone più anziane per mesi di casa.
Saranno i prossimi mesi quelli della ricostruzione dove tutte le città saranno chiamate ad impegnarsi per immaginare e disegnare comunità più resilienti probabilmente accelerando anche la conversione verso pratiche più sostenibili, come già evidenziato da molti. Ma allo stesso tempo, come ha scritto Gordon Lichfield, direttore del MIT Technology Review, «per fermare il coronavirus – e, aggiungo io, probabilmente anche per il prossimo futuro – dovremo cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come lavoriamo, come ci alleniamo, come socializziamo, come facciamo shopping, come gestiamo la nostra salute, come educhiamo i nostri figli, come ci prendiamo cura dei nostri familiari ».
Si comincia a parlare infatti di una profonda trasformazione del modello economico, di shut-in economy, ossia l’emergente economia chiusa dettata dall’esplosione dei servizi on demand e dalla consegna a domicilio.
Si tratterà quindi di rivedere la struttura stessa delle nostre città che dovranno rispondere maggiormente a questo tipo di esigenze ma senza dimenticare la necessità di continuare il percorso verso le città delle relazioni. Ci si troverà davanti a scelte importanti: si pensi ad esempio alla mobilità, da una parte la scelta più sicura potrebbe diventare il mezzo privato, l’automobile, a discapito del trasporto pubblico dove sarà complesso garantire le distanze di sicurezza con un impatto drammatico sulla qualità dell’aria considerando anche le ipotizzate connessioni fra l’inquinamento dell’aria e la diffusione del virus. Una maggiore presenza di automobili costringerà a ridimensionare gli spazi pedonali.
Insomma un ritorno indietro di decenni.
Si tratta proprio di una sfida epocale quella che ci aspetta, dove tutti, in particolare noi che ci occupiamo di sviluppo sostenibile, dovremo avere la capacità di rileggere le nostre proposte alla luce del Covid19 ma allo stesso tempo di renderle operative per essere protagonisti del cambiamento anche all’interno delle sfide già definite dai 17 Obiettivi di Sostenibilità dell’Agenda 2030.
E allora, come del resto stanno facendo molti Sindaci in tutto il mondo già durante il lockdown, sfruttiamo questa occasione per fare passi avanti perché invece che allargare le strade non allarghiamo i marciapiedi e gli spazi pedonali per promuovere in maniera, anche eventualmente flessibile, la pedonalità, garantendo, se necessario, le distanze di sicurezza fra le persone ma allo stesso non isolandole completamente e permettendo l’esercizio fisico e la mobilità sostenibile. È quello che hanno chiesto in una lettera aperta al Governo inglese oltre 50 fra accademici ed esperti nel momento in cui si è prospettata la limitazione degli spostamenti dal proprio domicilio.
Nelle prossime settimane e mesi di “convivenza con il virus”, in cui le persone si troveranno ad uscire nuovamente, perché non sperimentare la trasformazione temporanea delle strade urbane (i.e. urbanismo tattico) aumentando e allargando gli spazi riservati alle biciclette (l’altro mezzo che potrà fornire un’alternativa sostenibile alle nuove esigenze di mobilità post Covid19) piuttosto che alla pedonalizzazione di alcune strade (e.g. a New York il Sindaco ha deciso di chiudere al traffico delle strade per permettere lo svolgimento di mercati alimentari e di attività fisiche mantenendo la distanza fisica), tutto però accompagnato da una maggiore attenzione e controllo della velocità delle auto nelle aree urbane.
Insomma il distanziamento fisico ha bisogno di spazio e lo spazio che si riuscirà a garantire e conquistare sarà un’importante ipoteca verso città più sostenibili e fondate sulle relazioni con spazi adeguati e una qualità ambientale migliore. Perché perdere l’occasione di mantenere i livelli di qualità dell’aria del periodo del Covid19.
Infine non possiamo pensare che le relazioni saranno sviluppate senza impatto attraverso gli strumenti digitali. Dobbiamo quindi trovare una nuova pratica delle relazioni, che, seppur garantendo le condizioni di sicurezza, permetta l’incontro ed il confronto fra le persone. Gli strumenti digitali devono essere funzionali e non il fine o la fine delle relazioni.
Il percorso quindi di costruzione di comunità più coese, sostenibili ed inclusive avrà bisogno di competenze trasversali e multidisciplinari ma anche di non scegliere sempre il sentiero apparentemente più facile.
Marco Pollastri, Presidente del Centro Antartide